Impostors

A winter day at the beach in Santa Cruz


English

The almost unreasonable interest today in chronicling one's "failures," "weaknesses," or "vulnerabilities" is a fairly recent phenomenon that, like other fetishes of modern times, subverts the most common, historical, and natural assessment of events. "To them who complain shall be given" seems to be the new "the last shall be first."
Back in the day, those who declared in public that they had "failed" or were "weak" were taken, at best, as a sad example of inadequacy. At worst, they were stoned, unless someone with long hair and beard talking about sins and “casting the first stone” showed up. In some cases, the community would demand atonement, perhaps in the public square. 
I'm not necessarily defending the old days—nobody in their right mind would want to go back to the days of the father-master or women as second-class citizens or the glorification of war and bloodshed. But that so many are eager to speak ill of themselves surprises those who, like me, grew up in a different world.

Modern times have for some reason—in the United States and other English-speaking countries at first, now all over the world—brought the idea that being "weak" or a "failure" is virtuous. People describe their "failures" hoping for a physical or virtual pat (when the confession is online) on the shoulder, and perhaps a bit of commiseration from those who are listening.
Cyclically, some wonder how to overcome "impostor syndrome," a condition (of the spirit or of the mind?) that does not allow one to internalize and accept one's success—the "impostors" never feel skilled enough for what the profession requires or others expect. 
The opposite of how I have always acted. I have often thought I was capable of doing more than I had already done or others thought I would be capable of doing: sometimes I was wrong, sometimes I was right. How many times was I wrong and how many right? I don't know, I don't keep track. It's a way of seeing myself. 

As Shane Warne, legendary Australian cricketer, said,

Give me a chance at anything. The more aggressive you are, the more luck you'll have. [...] What's the worst thing that can happen?"

We all have doubts, but as H.A. Dorfman wrote in "The Mental Keys to Hitting",

Self-doubt is part of being human. Those who continue to doubt themselves often do so because they think they "must always be sure of themselves," as one player told me. He is wrong. "Always" is not typical of human beings. We all have self-doubt. It's a matter of degree and determination 

Perhaps I find the fetishization of weakness and failure difficult to relate to because I grew up when the examples of virtue, at least in theory, were self-control in the face of adversity, believing you could do it, and moving on quickly when things did not work out. 

I remember, still with goosebumps of second-hand embarrassment, when a colleague of mine working at one of Silicon Valley's best-known technology companies said during a group meeting, "Let me share with you some of my failures."
He began describing a list of "failed" projects and attempts that were of little interest to the meeting participants, who, however, were afraid to convey anything more than expressions of heartfelt sympathy for the speaker, who was sailing in bad professional waters at that time. I mean, how can someone discuss or criticize such a heart-to-heart confession?
I felt antipathy toward what I saw as psychological manipulation of colleagues ("please, I'm weak, be kind") disguised as openness to criticism and an admission of weakness. We all make mistakes and we all are wrong at some point: only in novels and movies do characters appear who seem infallible—for anyone else, life is full of uncertainties, mistakes, sometimes capitulations. But what I expect from people, especially from those who get money and status working in prestigious companies or institutions, is hearing, "this is what did not work, this is what happened, this is what we should be next time."  There is little need or use for heart-to-heart confessions or public tears. It worked for my colleague, but where is the dignity in seeking compassion in others to benefit oneself?

For the ambitious folks, it is daily life to be rejected, to lose, or to be blindsided. Since defeats, no's, and concerns are inevitable occurrences in the life of entrepreneurial people, the vicious blows that life deliver should be quickly and unequivocally forgotten after an assessment of the events and a decision on the new path forward. You might say that it is far from easy, it is human to feel down and wanting to share. Maybe, but it needs to be done. And we improve with practice.

I have been turned down from at least fifty high-level jobs for which I felt qualified. There is no point in "being down": other people felt equally qualified; maybe those candidates were better or had different skills; maybe they were looking for someone younger or older, maybe a woman. But that's life for those trying to move beyond ordinary existence, the "bare minimum". Sometimes you win and sometimes you lose: this is life. Without the need to look for compassion or to knock ourselves down so we can manipulate others into lifting us up.


Italiano

L'interesse quasi irragionevole che si respira oggi per il racconto dei propri "fallimenti", "debolezze" o "vulnerabilità" è un fenomeno abbastanza recente che, come altri fenomeni feticcio dei tempi moderni, sovverte la più comune, storica e naturale valutazione degli eventi. “A chi si lamenta verrà dato” sembra essere il nuovo “gli ultimi saranno i primi”
Un tempo, chi dichiarava in pubblico di aver "fallito" o di essere "debole" era preso, nel migliore dei casi, come triste esempio di inadeguatezza. Quando girava male, c’era il rischio di essere lapidati—a meno che qualcuno con barba e capelli lunghi non si mettesse a parlare di peccati e si interrogasse su chi per primo avrebbe scagliato la pietra contro la peccatrice. In casi particolari, la comunità esigeva l'espiazione della colpa, magari in pubblica piazza. Non sto necessariamente difendendo i vecchi tempi—nessuno sano di mente vorrebbe tornare ai tempi del padre-padrone o della donna cittadino di seconda classe o della glorificazione della guerra e del bagno di sangue—ma il fatto che così tanti siano desiderosi alla fine di parlare male di sé colpisce chi, come me, è cresciuto in un mondo diverso, un mondo in cui si percepiva senso d’orgoglio per la competenza e il controllo di sé.

I tempi moderni hanno per qualche motivo—negli Stati Uniti e in altri paesi di lingua inglese all'inizio, oggi un po' in tutto il mondo—portato l'idea che essere "deboli" o un "fallimento" sia virtuoso. Si descrivono i propri "fallimenti" sperando in una pacca fisica o virtuale (quando la confessione è online) sulla spalla e un po' di commiserazione da chi ascolta.
Ciclicamente, alcuni si chiedono come superare la "sindrome dell'impostore", una condizione (dello spirito o della mente?) che non permette di interiorizzare e accettare il proprio successo—il presunto “impostore” non si sente sufficientemente abile per quello che la professione richiede o gli altri si aspettano.
Il contrario, mi viene da pensare, di come mi sono sempre comportato. Ho spesso pensato di essere in grado di fare più di quello che avevo già fatto o altri pensavano avrei potuto fare—a volte mi sono sbagliato, altre volte ho avuto ragione. Quante volte ho sbagliato e quante volte ho avuto ragione? Non lo so, non tengo il conto. È un modo di vedere se stessi.

Come disse Shane Warne, leggendario giocatore di cricket australiano,

Dammi una chance per qualsiasi cosa. Più sei aggressivo, più fortuna avrai. [...] Qual è la cosa peggiore che può succedere?

Certo, tutti abbiamo dei dubbi, ma come ha scritto H.A Dorfman in "Le Chiavi Mentali per Battere" (un libro sull'allenamento psicologico per il baseball),

Il dubbio su se stessi fa parte dell'essere umano. Quelli che continuano a dubitare di se stessi spesso lo fanno perché pensano di "dover essere sempre sicuri di se stessi", come mi disse un giocatore. Si sbaglia. "Sempre" non è tipico degli esseri umani. Tutti abbiamo dubbi su noi stessi. È una questione di livello e di determinazione 

Forse trovo bizzarra il fanatismo della confessione, della debolezza e del fallimento perché sono cresciuto in un mondo—certo, così forse solo all’apparenza—in cui gli esempi di virtù erano il controllo di sé di fronte alle avversità, il credere di potercela fare e il passare in fretta ad altro quando le cose non funzionavano. 

Ricordo, ancora con la pelle d'oca per l'imbarazzo di seconda mano, quando un mio collega di lavoro in una delle più note aziende tecnologiche della Silicon Valley disse durante una riunione di gruppo: "Lasciatemi condividere con voi alcuni dei miei fallimenti".
Si mise a descrivere una lista di progetti "falliti" di nessun interesse per i partecipanti alla riunione, che però non si attentarono a esprimersi con qualcosa di diverso da espressioni di partecipazione alla pena del “fallito”, il quale, per dare il quadro della situazione, navigava in quel periodo in cattive acque professionali. Ricordo sbattiti di ciglia, morsi al labbro inferiore come per trattenere le lacrime, e nervosi, quasi febbrili aggiustamenti dei corpi sulle sedie.
Ho provato disgusto per ciò che ho visto come manipolazione psicologica dei colleghi ("per favore, sono debole, siate gentili") sotto le mentite spoglie dell'apertura alle critiche e della confessione a cuore aperto.
Tutti commettiamo errori e tutti sbagliamo: solo nei romanzi e nei film troviamo personaggi che sembrano infallibili—per chiunque altro, la vita è piena di incertezze, errori, a volte vere e proprie capitolazioni. Ma quello che mi aspetto, e soprattutto da chi ottiene soldi e status lavorando in aziende o istituzioni ricche o prestigiose, è sentir dire: "questo è ciò che non ha funzionato, questo è il motivo, questo è ciò che dovremmo essere la prossima volta". Lascerei poco spazio alle confessioni a cuore aperto e alle testimonianze di debolezza o inadeguatezza. La confessione ha funzionato per il mio collega, ma dov'è la dignità nel cercare compassione negli altri per beneficiare se stessi?

Per gli ambiziosi, è vita quotidiana essere rifiutato, perdere, essere preso alla sprovvista. Poiché le sconfitte e i rifiuti fanno inevitabilmente parte della vita della persona intraprendente—la vita della persona non ambiziosa mi coinvolge meno—i colpi maligni che la vita riserva dovrebbero essere rapidamente e inequivocabilmente dimenticati dopo l’esame degli eventi e la decisione sul nuovo cammino da seguire. Non è facile perché buttarsi giù fa parte della natura umana? Forse, ma deve essere fatto. E con la pratica si migliora.

Sono stato rifiutato da almeno cinquanta aziende per lavori di alto livello per i quali mi sentivo qualificato. Inutile deprimersi: altre persone si sentivano ugualmente qualificate; forse c’erano candidati migliori o con competenze diverse; forse l’azienda cercava qualcuno più giovane o più vecchio, forse una donna. Ma questa è la vita per chi cerca di andare oltre un'esistenza ordinaria. A volte si vince e a volte si perde: è così. Senza bisogno di cercare compassione o di buttarci giù perché altri ci sollevino.